Di mio nonno paterno conservo pochi preziosi ricordi che riaffiorano di tanto in tanto quando un oggetto o una parola mi riportano al suo mondo del quale ho fatto parte, purtroppo, solo per 12 anni.
Viareggino di nascita e di abitudini, lavorava in banca come mio padre e coltivava con amore le sue passioni, il mare e il teatro in vernacolo, tanto che a distanza di anni mi viene più naturale pensarlo su una barca a vela o mentre ci prende in giro in toscano schietto piuttosto che nelle vesti istituzionali.
Quando da piccola andavo a casa sua e della nonna, a una decina di chilometri da casa mia, mi comprava sempre un pacco di biscotti wafer che chiamava “fru fru” e si era consolidato tra noi un metodo per riceverli in dono: mai di persona e direttamente, ma sempre in un modo strano e fantasioso. Quando mi faceva girare di spalle e me li tirava lanciandoli fino al soffitto a formare una parabola, quando me li nascondeva nel ripostiglio buio e mi diceva di andarmeli a prendere facendo attenzione alle bizzarre creature che si supponeva abitassero nel sottoscala, quando me li consegnava solo dopo aver giurato che non era vero che volevo più bene ai miei nonni materni.
Un’altra abitudine di queste visite era la fase in cui mi terrorizzava con delle maschere scure che si divertiva a indossare, un misto tra quelle da attore da commedia veneziana e quelle etniche tanto amate dagli antropologi. Si girava di spalle, se le appoggiava sul viso, e cominciava a dirmi frasi sconnesse con una voce cavernicola che mi faceva sobbalzare. Avevo sempre voglia di piangere quando si comportava così, ma non lo facevo perché altrimenti avrebbe detto che ero una mammoletta. Ovviamente l’avrebbe detto con parole sue, tipo mezza sega o pisciona lammiosa.
Tutti metodi educativi che qualsiasi psicologo condannerebbe, eppure quella leggerezza profonda è uno dei tratti del suo carattere che custodisco nei ricordi con più gelosia, soprattutto perché non riuscivo a capire quel comportamento così istrionico e così schietto.
Con mia nonna era tutto un “la mi’ Pierina” e il modo in cui la guardava fino all’ultimo non l’ho rivisto quasi più in tutta la mia vita: così dolce, così innamorato, così pieno di “quante ne abbiamo passate, Pierina, eppure siamo sempre qui“.
Mi ricordo una delle ultime volte che l’ho visto prima che fosse ricoverato in ospedale. Ero in seconda media e andavano di moda le maglie firmate. Ne avevo ereditata da un’amica una dell’Energie, una marca che andava per la maggiore in quegli anni e che mia mamma non mi avrebbe mai comprato per principio, ché ai bambini si compra roba da pochi soldi tanto dopo una stagione si è già cresciuti. Lui mi guardò con quell’aria allo stesso tempo inquisitoria e bonacciona e mi disse: “devi avere tanta energia, te” e così è infatti.
È un ricordo da poco, ma quella frase pronunciata come ne avrebbe potute pronunciare altre mille mi ha dato la carica negli anni a venire in tutte quelle occasioni in cui la fiacca avrebbe preso volentieri il sopravvento. Dovendo onorare quel ricordo mi rimboccavo le maniche e raccoglievo tutte quelle energie.
L’ho pensato spesso in questo periodo, sono strani i giri che devono fare le persone per parlarci di nuovo. Lui poneva spesso l’accento sui difetti, trasformandoli in cose simpatiche che te li facevano sopportare meglio, diceva sempre delle verità scomode che sono diventate dei tormentoni nella mia famiglia. Tutte frasi che prima di essere pronunciate in pubblico dovrebbero passare parecchi vagli della censura – delle parolacce, del buon senso comunemente inteso, della forma – ma che me lo fanno collocare nell’Olimpo degli irripetibili, di coloro che sono e rimarranno unici al mondo. Di quelli che non ne troveresti uno uguale nemmeno cavalcando a ritroso i secoli, nemmeno proiettandoti nel futuro con la macchina del tempo.
Oggi sarebbe stato il suo compleanno, e per una volta in più non sarei stata capace di dirgli in faccia quanto l’amassi.
7 commenti
Mercoledì
Vedi, non sapevo che mio nonno scrivesse bene… è nel ricordo che le persone continuano a vivere.
@Otti: i fru fru già dal nome hanno qualcosa di magico, è un viaggio nell’infanzia anche adesso se mi capita di averne a tiro uno!
Anonymous
l’anonimo sopra è la Otti!
Anonymous
con i ‘fru fru’ mi riporti indietro, parecchio indietro…non tanto nel tempo, anche certo, ma quanto in un tutto un mondo e un modo di vedere, di sentire…i ‘fru fru’
Anonymous
Confermo quanto ho scritto ieri sera nel mio saluto su FB a nonno Silvano. SAREBBE STATO MOLTO ORGOGLIOSO DI QUELLO CHE SEI E DI COME SCRIVI. Lui amava scrivere ed aveva una bellissima calligrafia che io non ho. Non te lo avrebbe mai detto, ma ti avrebbe seguito con grande amore.
A nome suo (e mio) GRAZIE
Mercoledì
@TheGirlwiththeSuitcase: un abbraccio per questa bella condivisione! Spero tanto che in quelche modo queste parole arrivino! Grazie!
@Kinzica: il ricordo dei nonni ci accompagnerà sempre, soprattutto se per noi sono stati dei modelli da seguire. Un bacio! Grazie!
Kinzica
:’) ti capisco sai, io ho perso tutti i nonni prima dei dodici. La mia nonna materna è quella che mi manca di più. Se ne è andata quando aveva solo 74 anni, ma ogni tanto, quando guardo la Luna, le racconto come sto e quanto le voglia ancora bene. In qualche modo, credo, quest’energia trova la sua strada nell’universo.
Auguri!
TheGirlwiththeSuitcase
Mi tocca molto questo pezzo, dato che è ad ottobre che ricorre il giorno in cui mia nonna se ne è andata 3 anni fa.
I tuoi ricordi e le tue parole magari gli arrivano, chi lo sa. Non smettiamo mai di fare come se ci fossero, di parlargli: si sa mai che davvero ci sentano. 🙂
un abbraccio a te e auguri al nonno dunque.