Briciole di quarantena

Scritto da Serena Puosi

Categorie: Love Post

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Briciole, cose di poco conto.
Briciole come quelle che abbiamo sparso in terra in questi giorni.
Briciole che sommate tutte insieme fanno un pane.

Esiste una teoria secondo la quale ci vogliono 21 giorni per adattarsi a una nuova abitudine. Di giorni ne sono trascorsi 30 da quando ci siamo diligentemente chiusi in casa per la quarantena eppure non so se mi sono veramente abituata a tutto questo. Sono giorni che provo a scavarmi dentro per cercare risorse, trovando molto spesso dei grovigli senza bandolo, impossibili per tessere un filo logico della situazione.

C’è un esercizio che ritengo utile quando non trovo il senso delle cose della vita: provo a guardarmi dall’alto, abbracciando una prospettiva più ampia, riducendomi a un minuscolo bruscolino nell’Universo per ridimensionare il tutto. A volte funziona, mi sento più leggera, sollevata dalle responsabilità cui sono chiamata a rispondere; altre volte non c’è da fare altro che accogliere ciò che mi risulta incomprensibile, affidando la spiegazione al futuro che tutto svela. L’ho fatto anche in questi giorni, buttando giù una riga alla volta tra un “mamma” disperato e un lavoro da portare avanti. L’ho fatto anche se stavolta più che osservarmi da fuori mi sono guardata dentro.

Di questi giorni mi sembra di aver colto l’essenza in un binomio così scontato che sembra eccessivo parlare di scoperta, piuttosto di conferma. Salute e affetti – da declinare anche come amor proprio –: quando hai entrambi, non avresti diritto a lamentarti di alcunché. Noi, però, siamo esseri complessi e non ci accontentiamo di una verità lapalissiana, specialmente quando ci vengono tolte delle libertà: dobbiamo pensare, analizzare, smontare, teorizzare, dubitare e sognare. Così eccomi qui, a provare a trasformare i malumori in speranze, a dare uno sguardo al passato per affrontare il presente.

So che è una cosa che non si fa – l’hanno imparato anche i muri che bisognerebbe vivere solo nel qui e ora – ma in questi giorni è impossibile non dividere tutto in un prima e un dopo, con il Coronavirus a fare da spartiacque alle nostre esistenze, a sparigliare le carte per far sì che niente fosse più come prima. Ci siamo ritrovati con le vite spaccate in due: da una parte il prima, dall’altra il grande punto interrogativo del poi. L’insieme del prima ha assunto contorni dorati, abbiamo avvolto ogni cosa passata di un’aura magica, abbiamo cominciato a trovare il bello anche laddove prima facevamo fatica a scorgervi delle virtù.

Cose del prima che non sono più

  • Il passo leggero di mia madre sulle scale annunciato dall’abbaiare di Boris, il sollievo del suo aiuto che mi dava respiro, le bimbe che le buttano le braccia al collo, il poterle dire tutto in poche parole e uno sguardo.
  • La presenza solida e discreta di mio padre, il suo esserci sempre senza invadere gli spazi, il suo amore incondizionato e pieno per le nipoti per cui prende sempre le parti, la fierezza nei suoi occhi per ogni cosa che le riguarda.
  • La fisicità comprensiva e avvolgente di mia sorella, il pronunciare le stesse cose allo stesso tempo, il chiederci “quando ci rivediamo” e avere una risposta per questa domanda.
  • Le chiacchiere confidenti con le amiche, il tempo che non si trova mai, il ripeterci che verrà un tempo per ogni cosa, le cene inframezzate dalle urla dei bimbi, l’impossibilità di portare a termine un discorso.
  • La scuola di Anita, le colazioni infinite e le chiacchiere abbondanti fin dalla mattina, i racconti strampalati sul tempo passato con le maestre e gli amici, la corsa in braccio quando andavo a prenderla, il mucchio di disegni da conservare, le nuove amicizie.
  • Il saluto a Petra nella sua stanza del nido, le chiacchiere veloci e preziose con le maestre, un ambiente accogliente in cui lasciare con tranquillità la piccola di casa.

Impossibile stilare la lista completa, ogni frase è un pungolo che insinua che forse niente sarà più come prima, oppure che lo sarà in maniera diversa, più consapevole.

Se mi guardo indietro, vedo le nostre case come rifugi confortevoli in cui tornare dopo giornate piene, i nostri lavori che ci riempivano la testa e le agende lasciandoci poco tempo per pensare, i nostri svaghi, i capricci e le effimere certezze da cui facevamo fatica a staccarci. Di tutto il prima, ho ben presente la fortuna che mi ha assistito: un uomo generoso e dai solidi principi al mio fianco, la benedizione di due splendide bambine, il compiacimento dall’aver fatto della scrittura il mio lavoro proprio come sognavo da piccola. Viaggiavamo durante tutte le ferie a disposizione e avevamo la casa sempre piena di amici riuniti intorno a una tavola imbandita.

  • I viaggi in macchina per raggiungere clienti e aule in cui insegnare, gli studenti, la radio con i programmi preferiti, le nuove imprese in cui lanciarsi, le idee sempre nuove e la volontà di realizzarle.
  • Gli abbracci e le strette di mano vigorose, la voglia di stare all’aperto in compagnia, le cene fuori, gli appuntamenti.
  • La gioia di programmare viaggi, di creare un itinerario, di leggere libri sulla meta scelta, di incastrare tutto nei giorni a disposizione, l’attesa della prossima partenza.

Eppure, nonostante l’evidente buona sorte da cui sono stata baciata dalla vita, sento che tutto ciò che riguarda il passato è ammantato di nebbia, una coltre posata sul cuore per appannarlo. Prima avevo fatto del lamento una valvola di sfogo da cui non riuscivo ad affrancarmi. Mi crucciavo di non avere mai tempo per me stessa, di non vedere abbastanza le amiche, mi angosciavo per le bimbe che mi prosciugavano ogni energia e che non riuscivo a tenere a bada neanche con il prezioso aiuto dei nonni.

Mi sentivo spesso indietro: col lavoro, con la casa, con la cura dei rapporti sociali, con i viaggi che gli altri facevano e io mai abbastanza. Mi lasciavo condizionare le giornate da un discorso storto o da piccoli episodi senza importanza, che però sembravano toccarmi nel profondo, afflitta com’ero da una stanchezza incoercibile.

  • La spesa fatta scegliendo accuratamente i prodotti, il lusso di tornare al supermercato per una cosa al volo o uno sfizio da togliere, tutti i prodotti sugli scaffali.
  • Il parrucchiere una volta ogni tanto per vedermi in ordine, l’estetista che già prima mi sembrava un lusso, il comprarmi un vestito nuovo di tanto in tanto anche se sempre con un po’ di senso di colpa.
  • La passeggiata del fine settimana sul mare, il respiro delle onde dal pontile, la sabbia sotto i piedi, il gelato al sole, la gita fuori porta, andare a trovare un amico.

Ci vogliono veramente 21 giorni per prendere una nuova abitudine? Avrò finalmente imparato a non lagnarmi per le cose di poca importanza, a sollevare lo sguardo dalle mie scarpe, a dare la giusta importanza alle cose?

Da un giorno all’altro siamo diventati prigionieri nelle stesse case dalle quali facevamo a gara a stare alla larga il più possibile, ci siamo ritrovati a passare insieme ai nostri compagni di quarantena tutto quel tempo che prima ci sembrava sfuggire di mano, abbiamo dovuto affrontare quei mostri che eravamo diventati abili a ricacciare in fondo all’anima: la paura della solitudine, l’incertezza per il futuro, i nostri sogni più grandi messi finalmente a nudo dall’insonorizzazione del superfluo.

Questa reclusione forzata ci ha messo davanti all’evidenza che c’è solo un momento per vivere appieno la vita, che il futuro si costruisce un giorno alla volta. Di decreto in decreto, abbiamo capito che fare programmi a lungo termine non ha più senso, così come vivere con lo sguardo rivolto al passato è un esercizio utile solo per completare la frase “quando tutto questo sarà finito quella cosa non la farò mai più”.

Durante la quarantena abbiamo passato diverse fasi: l’ottimismo dei canti dal balcone, gli aperitivi su Zoom, il pane fatto in casa – le briciole –, la voglia di accusare sempre qualcuno (cinesi, lombardi, fuorisede che tornano a casa su un treno notturno, proprietari di cani, runners, genitori), la data della fine che slitta in avanti, le dirette di Conte e della Croce Rossa, la rassegnazione, la tristezza, la fatica.

Personalmente ho accolto l’obbligo di rimanere a casa con pacata rassegnazione: è la mia difesa, il mio modo per trovare le forze per affrontare una situazione tosta. Nei primi giorni ho temuto degli scompensi negli equilibri familiari, ho avuto paura di provare fastidio per i miei spazi di libertà domestica invasi, ho capito presto che, invece, avere Tommaso a fianco era una benedizione, ho provato sollievo dal dividere con lui ogni compito che avesse a che fare con la casa e con le bambine. Mi sono sentita meno sola.

Cose nuove che sono adesso

  • La strada silenziosa in maniera surreale, le rare macchine che passano percepite come suoni alieni, il cielo sgombro di aerei.
  • Il cinguettio costante, i latrati dei cani, i tosaerba più attivi che mai, i giardini salvavita, i fiori mai notati prima diventati simbolo di estrema bellezza.
  • La distanza sociale cui non riesco ad abituarmi senza intristirmi un po’, le mani secche dai troppi lavaggi, la voglia di piangere quelle pochissime volte in cui ho messo il naso fuori per la spesa.
  • Buttare fuori la rabbia e la frustrazione quando sembrano grovigli inestricabili, il ripetermi spesso di imparare ad accogliere il dolore e la mancanza di tempo. Aver voglia di piangere e non riuscirci, farlo tutto in una volta, fortissimo.
  • I numeri sciorinati dai tg che guardo sempre meno, le terapie intensive, i primi casi nella mia zona, le bare che non entrano nei cimiteri, l’Esercito con i mezzi incolonnati, il dolore per gli altri che è sempre dolore a metà.

Ci siamo dovuti adattare in fretta a una nuova vita, abbiamo improvvisamente dovuto fare i conti con noi stessi e con le nostre paure, ci siamo scoperti fragili e in balia del vento, non più illusi padroni delle nostre vite.

  • Ogni piccolo, nuovo gesto di Petra, il suo inclinare la testa sulla spalla sinistra per dissentire, il suono della sua voce quando dice “sì”, quando prende in mano il telefono e dice “nonna” – ché lei si è già adattata alle videochiamate–, il nuovo dentino spuntato in quarantena, la morbosità con cui mi si appiccica addosso da quando si sveglia a quando si addormenta, essere la sua prima parola di ogni mattina, essere la prima testimone di ogni sua epifania.
  • L’intelligenza sottile di Anita, il suo capire ogni situazione, la velocità con cui ha imparato ad aggiungere alle frasi “quando sarà passato questo Coronavirus”, quando ci ha detto “per favore, smettetela di litigare”, i momenti di sfogo incontenibile, le decine di dolci impastati insieme, il trovare sempre una maniera per divertirsi, i chilometri corsi in giardino.
  • Cercare di non pensare ai miei genitori per non commuovermi, saperli vicini eppure non potersi vedere, sognare il momento in cui potrò finalmente riabbracciarli per sentirmi ancora una volta bambina anche se sono una donna già da un po’.
  • La quantità vergognosa di carboidrati impastati e ingeriti, il lievito di birra che non si trova, la farina ordinata a chili, le briciole per tutta la casa, il bicchiere di vino serale per consolazione. Scoprire che si può vivere anche senza sushi.

Ci scopriremo migliori dopo questo periodo? Ci scopriremo peggiori? Cosa ne sarà delle nostre vite di prima? Vogliamo veramente tornare alla nostra vita di prima?

  • L’insopportabile patriottismo delle bandiere italiane al vento, il linguaggio della guerra anche se guerra non è, le teorie complottiste, le catene inutili sui social, i tutorial per qualsiasi cosa, i webinar gratuiti a cui comunque non ho tempo per partecipare, il tempo libero degli altri.
  • Il sospetto per strada, il guardare torvo chi ti si avvicina troppo, il voler gridare forte per interrompere un silenzio inverosimile.
  • I settori che non si sa se ripartiranno, l’economia in ginocchio, i lavoratori in cassa integrazione, quelli stagionali fermi ai box, i mutui e le tasse, baciare in terra se un lavoro ce l’hai ancora.
  • Il gesto dolce di una madre per raddrizzare la mascherina al figlio prima di uscire dal cancello, i vicini senza giardino che hanno chiesto in prestito il campo ai dirimpettai per far giocare a calcio, il suono ormai familiare dei palleggi tra padre e figlio mai visti prima d’ora.

In tutto questo mare agitato ognuno di noi prova a ritagliarsi delle ancore di salvezza, per me sono i libri sempre e comunque letti in qualsiasi condizione, sono i podcast da ascoltare e il tentativo dato agli audiolibri, sono le lezioni di yoga e di ginnastica a distanza per sentirsi meno eterei, più terrestri.

Il mio ancorarmi al presente è Tommaso che cucina cose buonissime per risollevarmi l’animo, le risate delle bimbe, le manifestazioni improvvise di Petra, il suo farsi capire in modo così trasparente, le briciole che semina per tutta la casa. Il vocabolario sempre più ampio di Anita corredato di verbi inventati eppure così coloriti.

Il loro crescere nonostante tutto, che dimostra come il tempo non sia mai sospeso, ma segua comunque sempre il suo corso. E sarà quel che sarà.

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