Dal letto d’ospedale in cui era ricoverata, l’unico squarcio sul mondo di cui poteva godere era un tratto di Alpi Apuane ormai sgombre di neve. Era aprile inoltrato e l’inverno era stato mite, o forse così lo aveva percepito potendo contare su due circolazioni vitalmente legate e qualche chilo in più. Aguzzando la vista, tra le fessure della veneziana, si potevano scorgere le cave di marmo in tutto il loro biancore e campanili isolati, segno di un passato recente in cui anche il gruppo di case più sperdute poteva contare su una parrocchia e sulla recita quotidiana dei vespri.
Faceva caldo in quella corsia, o forse erano le medicine che le venivano somministrate con cadenza regolare per farle calare la febbre di quei giorni, quella stessa febbre che le annebbiava i pensieri facendole percepire tutto distante, come su un altro pianeta. A volte si assopiva qualche minuto tra una visita e l’altra e in quelle tregue tirava il fiato e si lasciava trasportare dal gusto dolceamaro dei ricordi, mescolandoli a esperienze che aveva solo immaginato e a pagine di libri che divorava fin dall’infanzia.
Quel giorno la sua pellicola mentale trasmetteva una calda estate italiana, quella dei paesini bianchi del sud con i panni stesi nell’aia e le chiacchiere da un uscio all’altro, dove tutto è pubblico e un segreto dura un soffio. Non era in un posto preciso, era in un dormiveglia che univa tutte le sue vacanze tra il tacco e la punta della nostra penisola, isole comprese.
Le era bastata un’immagine e un film intero si stava proiettando dietro le sue palpebre appesantite, trasportata in un non luogo che erano molti luoghi insieme, una somma di posti abbacinanti che per essere visti necessitavano di una mano tesa all’altezza delle sopracciglia per dare riparo agli occhi.
Di colpo fu scaraventata nell’estate rovente del sud, dove le stoppie sui cigli dei campi sembravano prendere fuoco da un momento all’altro e le bisce strisciavano indisturbate verso mete sconosciute. Gli appezzamenti di terra in campagna erano riarsi, le crepe nella terra gridavano vendetta al cielo, i muri a secco parevano stare insieme per miracolo, gli alberi nodosi si ergevano solitari, stanchi. Nei campi di grano le spighe si spingevano fino a vecchie fattorie decadenti, dove ormai gli attrezzi erano arrugginiti, testimoni di vite passate. Era l’estate immobile, il tempo eterno del meriggio italiano.
La calda estate italiana della controra fluttuava in un tempo immobile: non un alito di vento, non un’ombra, non un rumore che non fosse il frinire dei grilli. Anche i gatti cercavano riparo in ogni anfratto, i cani rimanevano muti per non sprecare il fiato e li sentivi ululare ai pochi che si azzardavano a uscire, come per avvisarli della loro pazzia.
Di esseri umani in giro neanche a parlarne, se ne stavano tappati in casa fino al calar del sole, ché mettere il naso fuori sotto quella canicola equivaleva a una condanna. Forse gli unici a sopportare quel caldo impressionante erano i bambini: ogni tanto ne vedevi un gruppetto riunito a tirar calci alle pietre, in balia di quella noia estiva che avrebbero rimpianto nei mesi invernali e una volta diventati adulti troppo impegnati.
Nella calda estate italiana non accade nulla per tre lunghi mesi o forse succede tutto. Storie d’amore che sbocciano, situazioni passeggere e traballanti, semi lanciati al vento che a volte attecchiscono con l’ostinazione dei forti. E lotte. Stupidi battibecchi nati per il troppo tempo a disposizione, per la rilassatezza dei costumi, per un moto di superbia, per l’attaccamento alla terra. Tutto comincia e tutto finisce nell’arco di un sorgere e un tramontare del sole.
La matassa dei pensieri si dipanava velocemente trascinandola ora su una spiaggia assolata, ora in una caletta di cui non ricordava il nome, ma aveva ancora impresso il colore dell’acqua negli occhi così come quel tempo indefinito dopo pranzo che sembrava non finire mai. C’era sempre da aspettare la digestione, dicevano. La lunga estate italiana non era solo mare: era anche pineta e piedi neri sotto i sandali bucherellati, era ombra di pino e odore di resina, pinoli da raccogliere e schiacciare tra due sassi piatti.
Ah, l’estate, la calda estate italiana dei gelati artigianali – uno al giorno –, dei bomboloni caldi gridati dagli stabilimenti balneari e delle granite che per un lungo sorso obnubilavano i pensieri e davano fitte alle tempie. L’estate delle insalate di riso fredde e del cocomero da cui togliere seme per seme. L’estate dell’acqua limpida da bere, da muovere con le gambe a rana, da immersione, da bomba d’acqua il 15 d’agosto.
L’estate italiana di quando era bambina, ora che bambina non lo era più. In lontananza un rumore di una porta che si apre. Piano piano i ricordi si fanno bianchi, brumosi, le sfuggono dalle mani, non li agguanta più.
“Signora, ecco la sua bambina”
In un attimo l’estate le sfumò dai pensieri e tornò alla realtà, a quella primavera della vita: era in ospedale e aveva di fronte il suo futuro, il viaggio più bello.
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Con questo post (fantasia? realtà?) partecipo al Premio #INWEBWETRAVEL 2016, dedicato al racconto del viaggio sul web curato dal Festival della Letteratura di Viaggio che si terrà a Roma il 24 e 25 settembre. Mi rendo conto che è un post un po’ borderline per questo concorso (a cui partecipo con altri due post: “Varanasi: la vita che scorre lungo il Gange” e “Il dolce ricordo della Cambogia“), ma per me, in questo momento della mia vita, il viaggio è strettamente collegato all’esperienza che si prova quando si diventa genitori. Tutto il resto può aspettare, ma ho un gran bisogno di credere che so ancora scrivere qualcosa di decente. Fate il tifo per me? 🙂
4 commenti
valentina
Io tifo per te, certamemnte 🙂
Mercoledì
😀 siamo due svitate, lo sai vero? <3
Serena
È meravigliosooooo Sereeeee!!!! Ma si può votare?? Quando noto talenti come il tuo, io che non so più da che parte girarmi per capire che fare nella vita, provo un po’ di invidia (in senso buono eh ?). Assolutamente devi scrivere, sei nata per questo! O almeno, anche per questo ?
Mercoledì
Sere! Macché, anche io non so da che parte rifarmi! Spero solo di non sprecare del talento (sempre che ce l’abbia!).
Non si può votare, ma grazie per il pensiero! C’è una giuria che deciderà!