Ci si potrebbe fare uno studio su come scegliamo le mete dei nostri viaggi. Io, ad esempio, sono finita a Jaisalmer perché il suono cantilenante del suo nome mi faceva sognare mete lontane e inaccessibili e volevo ad ogni costo vedere il deserto che separa l’India dal Pakistan, cosa non priva di fascino se si considerano i rapporti non proprio idilliaci tra i due stati. Che poi di pericoloso non c’è proprio niente, anzi, l’unico vero pericolo è di essere travolti da orde vocianti di turisti o di finire spennati come un cretino qualsiasi in uno dei ristoranti-trappola col menu tradotto in tre lingue.
Jaisalmer aveva quest’aura già prima di partire e il rischio che correvo era quello di tradire quelle maledette aspettative che, ho capito col tempo, mi hanno creato in testa una cesura netta tra l’India che avevo sognato e l’India che effettivamente ho vissuto sulla mia pelle. Ma con Jaisalmer questo non è avvenuto, anzi, ha sgomitato per prendere un posto nel mio cuore riservato ai luoghi che mai e poi mai dimenticherò.
L’impatto è stato subito travolgente, l’ho scorta in lontananza avvolta dalla nebbiolina che si produce nel caldo torrido, come il miraggio di un’oasi nel bel mezzo del deserto. A pensarci bene è proprio così, per raggiungerla il conto dei chilometri si perde tra una dormita e una sosta in quella specie di autogrill indiani dove tutto costa il quadruplo del prezzo reale e dove anche una pipì ti costa qualche rupia in cambio di qualche strappo di carta igienica.
Arrivati al cospetto di questo gigante dorato di arenaria, ho fatto fermare l’autista per qualche scatto fugace e poi dritti in hotel per posare i bagagli – penso io – per fare una lunga sosta di qualche ora – deciderà per me l’autista. Confinati alla periferia della città ecco che parte anche qui un’incazzatura: sono ai primi giorni di viaggio e ancora non ho assestato il mio corpo sui ritmi indiani. Chiedere all’autista di venire prima del tramonto è una lotta senza vincitori né vinti: è così e basta, non è il caso di addentrarsi in città con la canicola del pomeriggio d’agosto.
Mi toccherà dargli ragione il giorno successivo, quando già di primo mattino sono da strizzare e l’ingresso in un tempio mi provocherà qualche capogiro e un calo di pressione. In realtà già il primo tramonto su Jaisalmer ha scatenato in me sensazioni da mille e una notte, con la piccola differenza che qui Sherazade deve fare i conti con la povertà spinta che caratterizza tutto il Rajasthan, e anche il sogno più fulgido è circondato da cartacce e cacca di mucca.
Il primo impatto con la città è avvenuto nei pressi dei cenotafi reali, quelle costruzioni di pietra finemente lavorata per commemorare i defunti illustri che adesso riposano tra il giallo delle prime dune appena fuori città e pale eoliche di moderna generazione.
In teoria dovevamo fermarci qui secondo la nostra guida che ha imparato l’italiano su Internet, ma stavolta l’insistenza della nostra sete di scoperta ci ha portati sulla collina opposta a Jaisalmer a condividere quel sole pallido che si appoggiava lentamente sulle dune con una coppia di tedeschi guidati da un ragazzo storpio e un gruppetto di bambini dai vestiti sgualciti e gli occhi guizzanti.
È stato uno dei momenti più indimenticabili del viaggio: una nenia ripetitiva raggiungeva quelle alture snocciolando preghiere e noi ci inchinavamo di fronte alla bellezza di quei bastioni possenti e allo stesso tempo fragilmente appoggiati sulla sabbia resistiti a secoli di attacchi e intemperie. La ciliegina sulla torta è stata la cena sulla terrazza di un ristorante assurdamente sperso nel nulla: c’eravamo solo noi e il sibilo del vento che sparigliava i tovaglioli di carta.
Jaisalmer mi è sembrata da subito avvolta in un alone di misticismo e di tempo immobile, un’enclave di accoglienza in cui, camminando per le stradine interne alla cinta muraria, tutti si conoscono e si salutano, includendo chi passa lì per caso in quell’equilibrio cosmico col peso del tempo sulle spalle. Non solo è magico entrare in quei templi cesellati con precisione sovraumana, è anche piacevole camminare senza meta tra le semplici case che riportano sulla parete che dà sulla strada d’accesso il disegno di Ganesh accompagnato dai nomi degli sposi che vivono lì e la data della loro unione.
Il deserto immobile che si srotola poco fuori dalle mura della città ci afferra con forza e gli escamotage che troviamo per salvarci includono un tè a casa della nostra guida seduti su un materasso che ha visto giorni migliori e un lassi – uno yogurt fresco al gusto di vaniglia col nome che è tutto un programma – in uno dei locali della città. Un provvidenziale passaggio dalla porta del vento concluderà la nostra visita a Jaisalmer prima di vivere un’altra avventura degna di nota: una notte nel deserto del Thar tra cammelli e balli popolari.
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Qui trovate tutti i post sull’India:
- Un nuovo viaggio all’orizzonte: India del Nord arrivo!
- Dieci cose dell’India che non dimenticherò mai
- Come organizzare un viaggio in India del Nord
- La polvere di Mandawa, in India del Nord
- Varanasi: la vita che scorre lungo il Gange
- Come richiedere e ottenere il visto per l’India (ovvero di quando scrivevo romanzi gialli)
- Strade indiane: ho visto cose che voi umani…
- Taj Mahal: l’amore eterno celebrato ad Agra
- Pushkar, dove Brahma e i fricchettoni convivono in India
- Nel deserto del Thar a dorso di cammello
- Libri che parlano d’India
- Il tempio Karni Mata in India (non aprire questo post se hai paura dei topi!)
Dove dormire a Jaisalmer
Se volete trattarvi da re vi consiglio di dormire al Gorbandh Palace, un hotel stratosferico fuori dalle mura della città.
Qui invece trovate altri alloggi a Jaisalmer per tutte le tasche.
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